In uscita con l’album “LA SPIA CHE TI AMAVA”, Marco Ongaro affronta in questo nuovo progetto discografico il tema dell’AMORE. Argomento a lui particolarmente caro, a cui si è dedicato con passione (sia come cantautore, sia come scrittore) analizzandone i diversi aspetti e le tante sfaccettature.
Tanto che oggi, nel giorno di San Valentino, proprio a questo artista profondo e poliedrico ci rivolgiamo, per scoprire insieme a lui (attraverso la sua indagine) i tanti “segreti” di questo sentimento.
– Benvenuto a Marco Ongaro, artista a tutto tondo, in grado di spaziare dalla musica alla letteratura (scrittore, saggista, drammaturgo). Profondo conoscitore, ed esploratore dell’animo umano con una particolare attenzione al tema dell’amore. Oggi, nel giorno di San Valentino, le chiediamo: qual è il suo rapporto con questo sentimento? E cosa l’ha spinta a dedicarvi buona parte dei suoi componimenti?
Il mio rapporto con l’amore è un po’ quello che una persona ha con la respirazione. Può provare a smettere per qualche manciata di secondi, può perfino superare il minuto con un po’ di allenamento, ma poi se vuole restare in vita, bisogna pur che riprenda fiato.
Non credo sia poi un rapporto speciale, credo che per tutti sia così, solo che io lo ammetto, o diciamo che ne sono fortemente consapevole. Ma possiamo davvero definire l’amore un sentimento? Un’emozione del tipo invidia, rabbia, allegria, noia, eccetera? Non è forse invece un mondo a sé, da cui i sentimenti si diramano ripetitivi o nuovi, alternati o continui, sempre diversi e simili? L’amore può essere erotico, carnale, umanitario, solidale, amichevole, spirituale, giocoso o grave a seconda delle situazioni o degli intenti, è costituito dalla propulsione del desiderio o dal coraggio a vincere sulle paure, dall’impulso all’avventura o dal bisogno di conservare un dono prezioso. Per questo nella canzone La spia che ti amava dico che «l’amore sfugge ai quattro sentimenti». È turbinoso e irresistibile, ma è anche pacato e silente come un pomeriggio in campagna. I “quattro sentimenti”, come i quattro punti cardinali, non possono che servire da coordinate per la gigantesca tridimensionalità della sua espansione terrena e pure intima, iperspaziale e atemporale. «È un’informazione che sfida l’algoritmo dell’iPhone» perché risiede nella concretezza del mondo reale di cui quello virtuale non è che la pantomima unidimensionale. Una volta un allievo, mentre si studiava Cent’anni di solitudine di Gabriel Garcia Márquez, ha chiesto: «Cos’è il contrario di solitudine?» Domanda illuminante, provocante, meravigliosamente rivelatoria. A conclusione della pièce che ne abbiamo tratto per il saggio di fine anno gli attori lo chiedevano ossessivamente, lo chiedevano al pubblico, di continuo: «Cos’è il contrario di solitudine?» Nessuno dava la risposta. Ecco, credo che amore sia il contrario di solitudine. Sebbene Oscar Wilde sostenga che «l’amore per sé stessi è l’inizio di un sentimento che durerà una vita intera», ritengo che nell’assoluta solitudine non si possa nemmeno più provare amore per sé stessi. L’amore, perfino quello per sé stessi, ha bisogno di altri cui rapportarsi.
Potrebbe bastare questa risposta per entrambe le domande che lei mi ha posto, ma posso aggiungere per esaurire la seconda che mi ci sono trovato avvolto, immerso, che ogni volta che cercavo il senso di qualcosa nello scrivere o nel vivere era lì che andavo a parare. Si può pensare che esista molto altro ed è vero, politica, guerra, economia, religione, ma in quanto spinta vitale cui tutto ciò, perfino la distruzione, fa capo, all’origine vedo sempre la stessa energia o il suo venire meno, vedo l’amore anche dove non c’è proprio perché la sua assenza ha causato la desolazione della sua assenza.
– Abbiamo detto musica, ma anche letteratura e teatro. In quale di queste arti trova maggiore ispirazione, quando si parla di amore?
In questo periodo ha ripreso il suo tour nei teatri la pièce Il muro trasparente – Delirio di un tennista sentimentale che più di tre anni fa, esattamente all’indomani del lockdown nel 2020, ha debuttato per prima sulle scene italiane grazie all’escamotage scenografico della quarta parete in plexiglass prevista nel testo ben prima della pandemia. In questo testo che ho scritto insieme a Paolo Valerio, che lo interpreta palleggiando per un’ora mentre monologa davanti al pubblico, l’amore ossessione, l’innamoramento stretto nella morsa dell’adulterio mostra tutta la sua potenza deflagrante ricomposta nella precisa fatica dello sport. Ci sono più parole, quindi si potrebbe pensare che il mezzo teatrale offra più opportunità espressive in merito a un testo, e un libro ancora di più, ma non è vero. L’ampiezza espressiva riduce la possibilità di focalizzazione di un tema, ne facilita la dispersione, la incita addirittura nella digressione quale metodo di aggiramento del discorso per meglio arrivarne al nucleo. Il teatro può essere fulminante, un saggio ancora di più, ma nulla lo è come la poesia. E quando io dico poesia penso alla canzone, quell’insieme di parole e musica ben circoscritto in un tempo determinato, capace con un aforisma o un pensiero di colpire il bersaglio di un senso mai del tutto attingibile, e di sottolinearlo con note ben assestate. Canzoni possono essere incluse in testi teatrali, poesie in romanzi e saggi, ma vuoi mettere quei tre minuti e rotti in cui si aspetta un ritornello che magari ci ha già sorpresi in apertura del brano? Quante pagine devo scrivere per un copione o per un racconto prima di raggiungere la sintesi di due versi come: «Tu non credi che il mio amore resista / Io non credo che resista il tuo»? Ho viaggiato tra i generi e le forme artistiche, è vero, l’aggettivo con cui mi ha definito a inizio intervista, poliedrico, parla di questo. È sinonimo di eclettico, altro termine poco amato da chi si consacra a una specializzazione. Ho studiato la vita e l’arte di un grande eclettico, Jean Cocteau, per indagarne l’intima natura e ho capito che l’eclettismo è una forma di ricerca espressiva: attraverso varie forme artistiche, si cerca di arrivare al centro di un significato che una sola non basta a definire. Ebbene, negli anni in cui sono passato dalla canzone al teatro, ai libretti d’opera e alla saggistica ho capito che nulla più felicemente della canzone mi avrebbe aiutato a mettere in evidenza il senso che cercavo. È stato un viaggio di andata e ritorno, prendendola alla larga. Lo dovevo intraprendere, ma eccomi tornato.
– Lei ha un repertorio musicale dedicato all’amore molto ampio, ed il suo nuovo album in uscita (La spia che ti amava) va ad approfondire ulteriormente questo tema.
Cosa c’è di nuovo in questo progetto, e cosa c’è da scoprire ogni volta, di giorno in giorno, sull’amore?
La spia che ti amava ha qualcosa di liberatorio e quella cosa si chiama rock ‘n’ roll. Dopo aver spaziato dal dixie al jazzy, dall’intimismo al d’autorismo, eccomi finalmente a dire la cosa con un trio rock e due coriste. Una sensazione di leggerezza estrema. La poesia si adatta benissimo al rock, ci sono esempi fulgidi oltreoceano e oltremanica, ne trae forza, slancio, rende lieve ciò che sarebbe greve e dà peso specifico alla scioltezza connaturata al linguaggio. Il rock è un linguaggio più che un genere. Si allarga all’orizzonte dei generi abbracciandoli come una ruota di pavone. Permette a degli ottantenni come gli Stones di stare su un palco senza essere ridicoli cantando refrain da ragazzini. Avevo già usato il rock in un paio di album precedenti, Certi sogni non si avverano e Il fantasma baciatore, stavolta però ho voluto concepirlo, grazie all’arrangiatore Pepe Gasparini, come un progetto per il palco, musica da suonare dal vivo, quel tipo di musica che ti permette di fregartene se qualche palato non troppo raffinato preferisce chiacchierare con il vicino. Ci pensa la chitarra elettrica a rispondergli, ci pensa la batteria a interrompergli la frase, mentre le ammalianti vocalist gli fanno rimpiangere di essersi perso qualcosa. In merito alla seconda parte della domanda, c’è sempre da scoprire qualcosa in più sull’amore. Citando ancora la title track del nuovo cd, l’amore «è una cifra, una password senza nome che va cambiata un giorno sì e un giorno no» e ciò significa che non ci si può mai sedere tranquilli, non si può mai considerare di avere in tasca il sentimento di qualcuno che ci preme. L’amore è la condizione più attiva che ci sia, una situazione in continuo divenire, necessita una serie di aggiustamenti costanti, sfumature, dettagli, l’amore si muove e muta dal mattino alla sera, da un bacio al successivo, da una pausa all’altra. L’amore è attivo per definizione, anche quando pare essere in una fase di stasi, la sua natura è l’estasi. Anche nella contemplazione dell’amore raggiunto, il lavoro di conservazione richiede progressi costanti. Il piacere va tenuto vivo, il dolore va attenuato, allontanato il più possibile, la tenerezza va accarezzata. Tutto questo è scoperta, tutto questo, nel ricordo o nella precognizione, è il lavoro del poeta innamorato dell’amore.
– Lei ha dedicato un suo libro a Serge Gainsbourg. Un autore a lei affine e che certamente ha saputo indagare a fondo l’amore. Cosa vi accomuna? Perché un libro dedicato a Gainsbourg?
Un libro che mi ha dato la grande soddisfazione di vincere il premio CartaCanta come miglior testo di argomento musicale nel 2022. Mi sento affine a Gainsbourg nell’ammirazione, “mi ci identifico ma non mi ci paragono”, come direbbe Roland Barthes. Per me è un autore talmente immenso e profondo da sognarmi di raggiungere le sue vette senza poter aspirare davvero a farlo. Lui ha saputo centrare numerosi successi estivi come autore e come interprete offrendo una sensazione di superficialità mai davvero confortata dall’abissale profondità dei suoi testi e delle sue operazioni culturali, ottenendo un successo che non ha purtroppo nulla a che vedere con la mia carriera artistica. Siamo onesti. Dedicargli un libro è stato come erigergli l’altare che merita. Certo l’amore per l’amore ci accomuna, come pure l’amore per la canzone anche leggera che, come uno scrigno, nasconda una autorevolezza poetica intrinseca a prescindere dalla percezione di critica e pubblico. Tratti comuni nell’indagare l’amore che nel suo caso esplodono nell’irraggiungibile Je t’aime moi, non plus, dove la formula trita di metafore da poesiole liceali si accompagna all’assoluto lirismo sull’incompiutezza dell’amore carnale. O nella fusione tra innocenza e malizia de Les Sucettes, nell’insistito gioco di parole che allevia il disincanto de La Javanaise. Nella reinterpretazione in chiave gay di Mon légionnaire, nell’uso del gossip per contrabbandare la propria arte. Dedicargli un libro era cercare di comprenderlo a fondo, una missione impossibile però fallita con stile. È il suo “neanch’io” a permettergli di sfuggire tra le dita dell’esegeta. La sua negazione in risposta a un’affermazione così diretta come “ti amo” lo pone al limite dell’interpretabile, donandogli l’infinita entropia della continua decifrazione.
– Quali altri autori trova a lei affini, o ritiene che abbiano saputo raccontare l’amore con assoluta profondità?
Il pensiero corre subito a Leonard Cohen. Lui è il cantore ai piedi del letto, il sussurratore a bassa frequenza dell’incomprensibilità infinita dell’amore, che si tenta costantemente di definire e che sempre sfugge arricchendo però il mondo delle suggestioni scaturite da tali irredenti tentativi. Cohen ha davvero parificato i sessi molto prima che le istanze sociali lo reclamassero. Lo Star System del rock ‘n’ roll ha vissuto per un bel po’ di misoginia, bisogna ammetterlo. Perfino le canzoni di Mogol-Battisti ne hanno risentito. Leonard Cohen ha invece livellato per primo le disuguaglianze, ha annullato le distanze, innalzando la donna a tutto e riducendo l’uomo a quel qualcosa che cerca di rapportarvisi in qualche modo e fallisce regolarmente. Innalzare i sessi alla loro parità e mantenere però le differenze significa liberare tutto il potenziale dell’amore, che è di per sé libertà. Non è possesso né tornaconto, per quanto la concezione abituale delle relazioni sembri averlo decretato per secoli, è libertà di offrirsi e di ritrarsi, libertà di desiderare e rispettare il desiderio altrui, è turbamento da Sacra Scrittura e rivelazione da demi-monde. Tra Giovanna d’Arco e Marianne, per Leonard Cohen la donna brilla nella sua unicità, nel magma creativo della sua essenza, perfino quando è “mezza pazza” come Suzanne, incastonata in due strofe al cui centro sta una terza non a caso dedicata al Cristo. La donna per lui è umana e trascendente, suscita venerazione e compassione, e l’amore è un’emanazione fuori controllo che dispiega il mistero della bellezza e del tormento, con tutti i pregiudizi a disposizione eppure senza possibilità di appello. L’immensa vicinanza di Leonard Cohen alla sostanza dell’amore è mistero essa stessa, che dall’intimità del talamo si eleva alla cupola del tempio. Ho tradotto alcune sue canzoni disseminandole in vari miei album e l’ho fatto principalmente per mostrare in italiano quanto sia prezioso il suo contributo su questo tema.
– Ne “La spia che ti amava” si parla di amore anche con sottile ironia. Quanto per lei l’amore è una cosa seria e quanto può essere preso con “leggerezza” e sagacia?
L’ironia e l’umorismo sono fondamentali nell’approccio a qualunque argomento, niente è veramente sacro se basta dell’ironia a dissacrarlo. Pensiamo a una semplice dichiarazione d’amore, la più sentita, un tocco di humour messo al punto giusto la rende molto più efficace che una rigorosa esposizione dei sentimenti tendente al patetismo. Il paradosso è amico dell’iperbole, il nonsense è cugino del lirismo. Mi viene in mente il classico componimento di Enzo Iacchetti «Se tu mi amassi / ma no che non ti amasso»: che liberazione! La serietà non si misura con l’assenza di sorrisi. In un gioco sottile come l’amore sa essere nelle sue manifestazioni migliori, prendere troppo sul serio qualcosa o qualcuno può essere deleterio. E poi, mi scusi, non c’è niente di più tragicomico del sesso, da Kafka in giù. Prendiamo cantautori come Gaber e Jannacci, quanto ci hanno giocato con l’amore e l’umorismo. Dall’onanismo edonistico dello Shampoo alla disperata repressione erotica di Vengo anch’io, no tu no!, come possiamo ancora tralasciare l’ironia quando parliamo d’amore? Mica solo quella, certo, o si finisce a raccontarsi barzellette, ma una pennellata qua e là. La canzone La spia che ti amava esprime ironia dal principio alla fine, lo stesso riferimento a James Bond favorisce l’umorismo: chiunque gli si paragoni non può esserne all’altezza, l’inadeguatezza è buffa. Se la si utilizza per smontare un mito è inesorabile. La terza traccia, S.r.d. (Società a responsabilità disperata) prende in giro la tendenza degli innamorati a scambiarsi profezie che si auto-avverano sulla fine del loro amore. Da una parte si teme di perdersi, dall’altra si millanta un’eternità di cui non si è padroni. A volte quando la canto mi viene impossibile non ripensare all’Alberto Lupo con Mina in Parole Parole Parole, quando gli basta lasciar interrotto un giuramento alla Shakespeare per risultare l’innamorato meno credibile di questa Terra: «Io ti giuro…» Non sa più nemmeno lui cosa giurare. Un po’ come il personaggio della mia canzone, che si arrampica sugli specchi per spiegare che non ha alcun motivo per dire addio.
– Lei ha partecipato alla realizzazione di un disco commemorativo dedicato a Piero Ciampi. In tal caso l’amore è sempre struggente, fonte di dolore e disperazione. Pensiamo a brani come “Tu no”, “Un palazzo di giustizia”, “L’amore è tutto qui”… Potremmo parlare anche della scuola genovese (ad esempio: Tenco, De André, Paoli). Cosa ne pensa della loro visione dell’amore?
«Non sono morto e tu lo sai / se ti procuro tanti guai / perdonami». Quanta ironia c’è in questa dolente affermazione di Ciampi in L’amore è tutto qui. Ho partecipato a ben due raccolte di tributi a Piero Ciampi, perché due erano gli spettacoli teatrali da cui sono stati tratti, uno al Teatro Argentina nel 1990, Reinciampando, l’altro al Teatro Regio di Parma nel 2008, E continuo a cantare. È vero che la visione dell’amore degli autori da lei citati era un po’ deprimente, a tratti, ma perché quella era la rivoluzione del momento, la rivoluzione canora che il nostro Paese si poteva permettere. Dopo canzoni per bambini e gaiezze varie di regime, dopo l’amore convenzionale o gli struggimenti perché la mamma non comprava i balocchi alla bambina, autori come Tenco, Paoli, Ciampi o De André insinuavano finalmente una dimensione forse tetra ma vera, che si rivoltasse contro l’amore preconfezionato, gioioso, fedele, stucchevole o quello esagitato di chi emulava la nuova musica leggera americana. Innamorarsi di qualcuno perché non si aveva niente da fare o considerare le parole d’amore sassi consumati dal mare o accettare l’alternanza degli amori che vanno e vengono era già controcultura. Piero Ciampi era un outsider livornese che in principio ha provato un po’ ad allinearsi ai colleghi genovesi, un caso a sé. Non c’è un suo brano d’amore della stagione matura che non contenga uno sberleffo improvviso, un pugno sul naso, un armadio pieno di scarpe, gambe lunghe e felici. Perfino la sua disperazione amorosa, che era vera e vissuta e si potrebbe dire autoprovocata, non rinuncia mai al tono cialtronesco di chi si ribella all’impossibile presunta normalità dell’amore. Ogni stagione musicale vede l’amore come può. In un panorama in cui si tende a spiare il compagno di banco per fare la stessa cosa che fa lui, i cavalli di razza si distinguono. Nel desolante universo trap, una canzone come Sciccherie di Madame ha saputo far volare alto il discorso amoroso.
– Lei è un fine cantautore, ma anche un vivace rocker. Quale anima prevale in amore?
Il rocker vorrebbe mimare senza poi crederci le mosse erotiche di chi imbraccia la chitarra e la sventola come una protesi a sei corde, il cantautore ambisce a esporre i versi come protesi verbale della propria percezione del mondo sensibile. Si tratta sempre d’irrealtà aumentata. Non c’è bivio tra le due vie. Quando facevo il jazzy di Canzoni per adulti avevo il pianoforte come protesi dell’attaccatura del cervello al mondo, e non era una terza via. La bellezza vera sta nella parola che sgorga inattesa, inaudita, e dice qualcosa che non ti aspettavi di dire. Allora senti che puoi amare perché sai parlarne, sai decrittarne il codice. Che sia Il Salvatore delle donne tristi, Il sostegno delle massaie, Il fantasma baciatore o La spia che ti amava, è la parola a qualificarti, la musica a rivestirti. La lira di Apollo è lì per accompagnare i versi, non viceversa. Dio benedica i musicisti che forniscono ali alle parole dei poeti. Eros benedica la musica che dal sottofondo porta in preminenza la parola. Se l’amore è cieco, ha bisogno di ascoltare.
– Dovendo suggerire delle sue canzoni, per riflettere sull’amore e sulle sue dinamiche, quali consiglierebbe ad un nuovo ascoltatore e perché?
Partirei con Irriconoscibile al mattino, dall’album Il fantasma baciatore, perché è una canzone d’amore che non pronuncia mai la parola amore né fa dichiarazioni equivalenti. Dallo stesso album prenderei Certe donne si amano che dell’ecumenismo in amore fa professione di fede. Proseguirei con le quattro della risposta precedente perché prospettano il percorso di un individuo che vuole comprendere l’amore sperando di farsene comprendere. Poi consiglierei Lo sfondo, da questo mio ultimo album, perché asserisce tutta l’importanza dell’amore attraverso la totale rilevanza dell’individuo amato.
Foto Credit: Stefania Tramarin su concessione dell’artista